Il modello biosistemico: stadi del processo – 6

Quando si comincia una relazione di counseling è bene, fin dai primi colloqui, costruire insieme quello che è l’obiettivo del lavoro, formulare un’ipotesi di lavoro che andrà verificata nel corso del tempo. Di tanto in tanto ci dovremo chiedere se gli obiettivi prefissati sono stati raggiunti e se è necessario riformularne di nuovi o interrompere la terapia. Questo per evitare di procedere senza meta e ritrovarci con un paziente insoddisfatto che ad un certo punto ci dica che la terapia non è servita a nulla.

Giorgi individua alcune fasi fondamentali all’interno del processo di sviluppo biosistemico,  evidenziando che  anche se nella pratica il tempo occupato da ognuna di queste  può variare da seduta a seduta è importante che ogni volta il processo venga completato, così che ogni incontro sia una parte compiuta, seppure all’interno di un processo più ampio; è per questo il tempo di una seduta può variare dai 40 ai 90 minuti:

  • Empatia, sentire al proprio interno le emozioni che dominano la persona. Prendere contatto con la sua unicità. Far sì che lui si senta accolto, compreso, non giudicato e quindi libero di esprimersi. È in primis attraverso l’ascolto profondo (Liss, 2004) e poi utilizzando strumenti come il rispecchiamento dei gesti, la ripetizione di parole chiave, l’incoraggiamento e l’apprezzamento che si cerca di creare quel rapporto di fiducia e quel calore che consente al lavoro terapeutico di partire.
  • Intensificazione, il lavoro terapeutico dovrebbe consentire al cliente di lasciare il proprio livello di coscienza ordinaria per spingersi a livelli di consapevolezza  più profondi, focalizzandosi verso il proprio mondo interiore. Tutto questo avviene attraverso domande aperte, rievocazioni di immagini dolorose o di frasi cariche di vissuti emotivi, ma può essere intensificato attraverso l’utilizzo della respirazione profonda, delle varie posizioni di grounding, il chiudere gli occhi (che favorisce il contatto con il mondo interno), oltre all’amplificazione dei gesti, cioè passando ad una esplorazione psicocorporea dei vissuti esplicitati. Sono importanti domande come “dove senti questa emozione?”, “dove la collocheresti nel tuo corpo?”, “prova a toccare quella parte!”, “prova ad aumentare la pressione lì e a respirare più profondamente”. A questo punto il contatto fisico, che si esplica prima toccando la mano del soggetto e poi direttamente la parte del corpo portatrice dello stress, creano le condizioni per l’approfondimento.
  • Approfondimento emotivo, l’assenza di giudizio e il contenimento protettivo sono condizione necessaria del setting in questa fase. È bene chiarire come in questo contesto protetto il soggetto possa sentirsi libero di esprimere se stesso senza il timore di sentirsi giudicato, ma con il senso di responsabilità e la consapevolezza che implica un lavoro terapeutico di cui è lui il protagonista. In questa fase, l’osservazione di tutto quello che si verifica in modo spontaneo, deve aiutarci a comprendere quale direzione far prendere al lavoro. Suoni, parole, brevi frasi possono accompagnare l’azione. Il counselor può ripeterle e incoraggiare la persona a fare lo stesso, alzando il tono della voce in una crescente attivazione del sistema simpatico, al fine di permettere ulteriori trasformazioni cognitivo-emotive, verso una maggiore e più consapevole conoscenza di sé. L’esplorazione  dovrebbe sempre comprendere due aspetti: l’episodio (o evento scatenante) e l’emozione. La descrizione dell’evento dovrebbe consentire di creare la memoria, avendo un’immagine più realistica e lucida di cosa è accaduto e del ruolo svolto da tutti i personaggi; analizzare l’emozione, dandole spazio e tempo, ci consente di mantenerla nella coscienza il tempo necessario a comprenderla, tutto questo permette anche di contenere le emozioni stesse evitando di essere travolti da esse; infine dopo  “cosa è accaduto?” e “come si è sentito?” sarà possibile domandare “cosa può fare adesso per risolvere il problema?”, ovvero cercare una soluzione. Come dice Liss qui la sfida per l’Ascoltatore Empatico è rinunciare alla soddisfazione di proporre soluzioni, perché la difficoltà è tollerare la sensazione  di disagio viscerale che nasce quando c’è un problema da risolvere.

Per alcune persone una buona analisi del problema e delle loro modalità di gestire le situazioni, può bastare come spinta al cambiamento, ma a volte non basta ed è necessario “elaborare una modalità concreta di azione per il futuro, all’inizio sul piano mentale e poi nella pratica del gioco di ruolo”.

È molto importante passare dall’astrattezza a esempi concreti, entrando in analisi dettagliate con “chi”, “dove”, “quando”, sia nella descrizione delle situazioni problematiche sia nella ricerca di soluzioni; sperimentando  nuovi modi di comunicare,  come ricerca creativa e cooperativa con l’altro, dove nessuno ha già le risposte ma si lavora e si sperimenta insieme.

  • Vissuto di riparazione, dalla fase precedente si rimbalza rapidamente verso stati emotivi opposti, alternando l’attivazione dei sistemi Simpatico e Parasimpatico. Sperimentare situazioni inusuali, emozioni, sensazioni fisiche, stati d’animo nuovi può favorire un modello per il superamento delle situazioni problematiche, “un’esperienza emozionale correttiva” (Alexander, 1969) vissuta con il counselor, può fornire nuove strategie d’azione ma soprattutto nuovi modelli cognitivi. È questo il tempo per il soggetto di esplorare le emozioni più dolorose e guardare a tutte le proprie contraddizioni e le parti di sé più difficili da accettare senza esserne distrutto. Per il protagonista trasformare in parole ciò che prova non  sarà necessariamente immediato, potrà richiedere del tempo, in tal senso “una verbalizzazione empatica del counselor, che utilizza la propria cassa di risonanza interna per amplificare e rendere più chiaro quello che è successo, aiuta il paziente ad andare avanti nel suo lavoro di ricerca” (Liss, Stupiggia, 2005), fino a quando non si sentirà di poter descrivere da solo ciò che sente e condividerlo con una persona attenta ed empatica.
  • Integrazione, è l’obiettivo cruciale del nostro approccio; è infatti la disconnessione tra le varie parti di sé (emozioni e pensieri, mente e corpo a caratterizzare il malessere psichico), che si realizza in condizioni di sofferenza come meccanismo difensivo, e utilizzato in modo massivo finisce per cronicizzarsi. Nel nostro lavoro si sviluppa gradualmente una sempre maggiore conoscenza di sé, un maggior contatto con le proprie emozioni, con le parti di sé più sgradevoli e più difficili da accettare e comprendere; questo consente di comprendere che alcune modalità di pensiero e di azione, che potevano essere funzionali e adattive nel passato, non lo sono più, perché sono mutate le condizioni esterne o le sue risorse. Se è possibile  sperimentare strategie nuove per affrontare i problemi in modo più costruttivo è possibile gradualmente lasciare le difese distruttive non più necessarie. L’integrazione, quindi, deve consentire gradualmente la piena accettazione di sé, un aumento dell’autostima  e la necessaria spinta al cambiamento.

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Maurizio StupiggiaDirettore scientifico di Corpus in fabula.
Psicologo, psicoterapeuta, Docente a contratto di Pedagogia Speciale all’Università di Genova, Facoltà di Medicina e Chirurgia.
Direttore della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Biosistemica (Bologna), ha al suo attivo una solida formazione in ambito psicologico, dove ha approfondito diversi approcci quali la psicoterapia psicoanalitica, l’orientamento gestaltico, la psicoterapia junghiana e infine la psicoterapia biosistemica di cui rappresenta, insieme a Jerome Liss, uno degli esponenti più qualificati.

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