Prime chiavi per riflettere sul teatro: Giuliano Scabia, Attilio Scarpellini, Silvia Rampelli, Industria Scenica

di Letizia Buoso

La prima volta che incontro di persona Giuliano Scabia per prepararci al convegno di novembre, mi chiede cosa possiamo dire del teatro se a Il Cairo da pochi giorni è stato ritrovato il corpo di Giulio Regeni torturato a morte. E mi chiede se ho pensato che nelle stesse ore i ricercatori degli osservatori Ligo e Virgo (è a Cascina, Virgo, a pochi km da dove siamo) hanno confermato che l’universo è percorso dalle onde gravitazionali e lo spaziotempo vibra, elastico e in espansione: ci stanno dicendo che ogni movimento di un corpo celeste modifica quello degli altri, nella reciprocità, percepibile o meno.
Mi guida nel Novecento con lui: ci addentriamo nel secondo dopoguerra in Italia quando Giuliano era poco più che bambino; passiamo per il tempo in cui alcune delle armi dei partigiani diventavano quelle delle Brigate Rosse e utopie e fedi erano deformate fino a giustificare assassinii, e Giuliano sceglieva di lavorare con e per il teatro e la parola incarnata e scritta; risaliamo i decenni in cui a essere consumati e danneggiati gravemente sono stati anche l’acqua e il territorio, e anche questo si è intrecciato per lui nell’insegnamento e si è tradotto in nuove azioni, sculture, disegni, pagine, confronti e ricerca incessanti. Molto di tutto questo è ancora qui attorno a noi, nella concretezza di un cavallo albero casa carro culla grotta teatro veliero leggio di cartapesta e canne ed è documentato in libri, quaderni, fogli, fotografie, creati o raccolti in una vita che supera gli ottanta anni.
Sono qui anche i documenti dei giorni del 1972 e 73 a trovare prima di tutto con quale parola presentarsi, lui e alcuni altri, a medici, infermieri, persone ricoverate e visitatori nell’Ospedale Psichiatrico San Giovanni di Trieste per invito di Franco Basaglia: fu “artisti”, ‘persone estranee alla cura, alla custodia: estranee al manicomio’ e che ‘hanno messo a disposizione la propria professionalità, perché decisi a usarla soprattutto per cercare un modo nuovo di stare insieme’, per ‘aprire possibilità di invenzione continua per gli altri e con gli altri’, di ‘attivazione e rappresentazione permanente’. Non era la prima volta che il teatro non accadeva in teatro, non chiamava a raccolta dentro di sé e tantomeno imponeva modi di guardare. Con Giuliano e il gruppo con lui, il teatro entrava in quell’ospedale e si dilatava: era la capacità di essere presenti a se stessi e all’altro senza giudizio, ‘il massimo di ascolto per afferrare il minimo di espressione’, ‘invenzione reciproca’ di movimento del corpo, ritmo, voce e suono, figure, storie. Era condivisione di immaginazione, affetti, biografie emerse e incarnate che diventavano anche grandi disegni, burattini e più grandi oggetti, drammatizzazioni, canti corali, azioni performative. Trasformava lo spazio dell’istituzione, quel fare teatro, in dialogo costante con medici, infermieri e le persone che volessero condividere il percorso. Pareti e porte del padiglione P erano ora dipinte, con assi di scarto si faceva una pedana, mobiles costellavano i soffitti, manifesti quotidiani restituivano la sintesi chiara di quel che si costruiva lì dentro ciascun giorno ed era il seme del giorno successivo. Quei manifesti erano stati i primi segni a uscire dal P e circolare negli altri padiglioni, a raggiungere poi i muri della città per comunicare con tanti di più: convocavano tutti, oltre la recinzione del manicomio, oltre i confini di Trieste, fino anche alle redazioni dei giornali, delle radio e delle televisioni. E in molti accorrevano: il manicomio smetteva di essere isolato e di ridurre le persone all’inerzia controllata, entravano sempre più familiari, visitatori, studenti, altri “artisti”, giornalisti. Ascoltavano, domandavano, stavano insieme nella creazione comune e nell’evolversi del senso di quell’esperienza. Quel modo di fare teatro aveva allenato nei presenti la capacità di accordarsi in gruppo scambiando anche solo uno sguardo e sfondare una delle porte strette del manicomio: erano usciti dall’ospedale in parata con Marco Cavallo, grande bestia di legno e cartapesta, forma concreta che raccoglieva i loro vissuti in accordo, dipinta di azzurro come ‘la libertà del cielo’. Testimoniavano la libertà che gli esseri umani possono sperimentare: di essere insieme, nella sofferenza e alla ricerca di un’integrità, essere attivi, chiari e propositivi, più mobili nel proprio corpo, parte di quello sociale e di quello celeste, capaci proprio per le relazioni sviluppate – con sé stessi, con gli altri, con la struttura, con l’esterno – di essere portatori di senso, domande, anche conflitto necessario a svilupparsi ancora meglio di così. Essere parte significativa e significante di un universo non esauribile, dove le porte sono attraversamenti di confine e non i limiti di frontiere presidiate da cui non c’è uscita.
Fu una delle più importanti esperienze teatrali nel Novecento. E da questo fare ed essere, può parlarci Giuliano: del teatro come incontro, di quando gli attori e gli spettatori sono persone – “artisti” e non, identità incarnate complesse e delicate, mai stereotipi –, del loro agire insieme come un coro, con la forza che nasce anche nella cooperazione delle differenti competenze e professionalità, nel non essere isolate ma parti di comunità e dell’universo tutto, e nella scoperta condivisibile del valore ‘dell’impossibile attraverso l’impossibile’ durante i processi di cura e di aiuto.

Dal permanere di questi principi – come a seguire le gemme di un rizoma – nasce la scelta delle altre persone che si occupano di critica, regia, attoralità, danza, drammaturgia di comunità, che interverranno il pomeriggio di venerdì dopo Giuliano e condurranno i workshop sabato.
La possibilità di essere sé e insieme assumere forme dell’immaginazione nella performance, andare oltre il ‘fare come se’ e recuperare il senso più profondo e rispettoso del ‘fare sempre di nuovo’ è una delle chiavi che Attilio Scarpellini, riprendendo Walter Benjamin, sceglie per osservare Daria Deflorian e Antonio Tagliarini. Daria e Antonio lavorano dentro e fuori dai teatri, in azione come se stessi, disponibili a incarnare l’altro: oscillano tra l’interpretare sé e diventare personaggi altri, sul palco, oltre il palco, in teatri integri, in edifici teatrali smantellati, fuori dai teatri. Sviluppano non strutture narrative forti ma aggregati di piccole situazioni fondate sul farsi attori, testimoniare, condividere ricordi intimi di vissuti privati (l’infanzia, il lavoro, l’amore, un lutto) e pubblici, e indagini di frammenti della storia collettiva recente. Anche a ogni oggetto o abito che portano nella scena assegnano queste possibilità: quell’oggetto appartenente al reale ha insieme la stessa possibilità di diventare altro da sé che concedono a se stessi, e la possibilità di passare nelle mani degli spettatori e caricarsi di senso ulteriore in questo contatto e scambio. È un teatro dove guardarsi negli occhi, ciascuno dei presenti, sapendo che lo si sta facendo tutti e nella reciprocità, in cui dialogare – con la parola e nel silenzio – a luci spente e accese, o alla luce del sole. Non per intrattenimento, né per il consumo di un prodotto culturale, ma per una convocazione che sentono loro per primi e attorno a cui costruiscono l’occasione teatrale di agire. Curando anche le condizioni perché quello che sta oltre il perimetro dello stare riuniti (gli spazi prossimi e il loro suoni, chi li attraversa o frequenta) filtri nella rappresentazione e le dia senso ulteriore. È da qui che Attilio porterà il fuoco dell’attenzione su cosa significhi in questa e altre esperienze recenti e in atto, scegliere il proprio modo di fare teatro, in forma spettacolare o di laboratorio, incarnare una posizione e una poetica, costruire forme estraendole dal reale e spostandole nella ripetizione teatrale, per parlare con chi ci sta accanto.
Seguiremo Silvia Rampelli nell’arco che va dalla ricerca per la scena con la compagnia Habillé d’Eau ai laboratori sulla performatività per la malattia di Parkinson che conduce a Roma: condivideremo interrogazioni dalla sua ricerca di danzatrice e coreografa, da come si sviluppa quando si dedica alla creazione artistica e quando si affianca alle terapie mediche per il decadimento motorio e cognitivo. Ci soffermeremo sulle capacità di azione e di comunicazione vocale, espressiva e gestuale di ciascuno – su come, nella finitezza del tempo di un’esperienza teatrale, si aprano le possibilità di essere presenti e percepire l’accadere, di sentire liberandosi dall’abitudine e dal giudizio, di riconoscersi quali si è e non disgiungere corpo mente e Spirito. Di essere identità-alterità e forza in un campo di forze. Di sperimentare condizioni, ‘la consegna di un contesto, una motivazione, un radicamento, una domanda’. E lasciare ‘emergere epifanie’. Ne parleremo venerdì e ne svilupperemo una possibile esperienza il giorno successivo, durante un workshop.
In corrispondenza a questo stare raccolti, il gruppo di Industria Scenica porterà l’accento sulla dimensione sociale dell’atto performativo, sulle responsabilità di una relazione con un territorio, la comunità che lo abita e chi lo attraversa: ci daremo un tempo per accordarci in sala e strumenti per osservare cosa e chi incontriamo all’esterno, mappare i molteplici incontri che accadranno e le relazioni potenziali. Usciremo a osservare il quartiere nella città, sviluppare interazioni, raccogliere segni ed elaborare brevi azioni. Andremo a creare una piccola drammaturgia di comunità da restituire oltre il gruppo del workshop – a costruire una circolarità aperta, nel percorso iniziato con l’ascolto di Giuliano Scabia.

 

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